Nagorno Karabakh
Un bombardamento a tappeto con artiglieria, aviazione e droni, oltre 500 morti e 120'000 civili che fuggono dicendo addio per sempre alle loro case, alle loro chiese, ai loro ricordi, alla loro storia, alla loro terra. E’ in questo modo che ha avuto fine l’esistenza della Repubblica dell’Artsakh, lo stato armeno mai riconosciuto da alcuna nazione al mondo, nato nel Caucaso meridionale dopo la guerra del Nagorno Karabakh degli anni ’90 e che, a seguito dell’ultimo attacco condotto dall’Azerbaijan il 19 settembre 2023, è sparito dal nostro presente.
Quando uno stato nasce, o proclama la sua indipendenza, inni e bandiere al vento ne celebrano il suo avvento sul proscenio della storia, quando uno stato cessa d’esistere rimangono invece solo lacrime di sfollati e macerie di esistenze raccolte in poche valige stipate nei bagagliai delle auto e alla deriva nella contemporaneità. Sono decine di migliaia i cittadini armeni che hanno abbandonato la regione contesa del Caucaso, attraversando il ponte Hakari e dirigendosi verso Yerevan, la capitale dell’Armenia. Quale futuro per loro? Non lo sanno. La sola certezza è quella di aver perso tutto e per sempre.
“Queste foto e un sacchetto contenente una zolla di terra del Nagorno Karabakh è tutto quello che mi resta della mia storia, del mio passato e della mia madrepatria”. Nvard ha 60 anni, vive a Goris, la città dell’Armenia al confine con quella che sino a poche settimana fa era l’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh. Trascorre le sue giornate in un albergo prigioniera della memoria del passato, dell’attesa del presente e dell’incertezza del futuro. “Dopo aver subito un bombardamento a tappeto per 24 ore siamo tutti fuggiti. Non abbiamo avuto nemmeno tempo di prendere con noi i nostri bene, siamo dovuti scappare all’improvviso caricando in macchina lo stretto necessario e oggi noi, gente dell’Artsakh, siamo dei rifugiati in Armenia che non hanno neanche più un luogo in cui sperare di poter tornare. Il mio sogno sin da quando era bambina è quello di visitare l’Italia. Oggi invece non ho altro sogno che tornare nella mia città, nella mia terra, nel mio Artsakh. È solo un sogno, ma è la mia sola ragione di vita ormai”.
Ufficialmente dal 1° gennaio del 2024 lo stato dell’Artsakh cesserà formalmente d’esistere, nel mentre però si è già assistito allo scioglimento dell’esercito, alla consegna delle armi e anche all’arresto di alcuni dei più importanti leader politici del Nagorno Karabakh come Ruben Vardanyan, ex ministro di Stato, David Babayan ex ministro degli esteri dell’Artsakh, l’ex primo ministro Arayik Harutyunyan e l’ex Preisdente Bako Sahakyan. Ma sebbene l’Azerbaijan abbia ripreso completo controllo del territorio del Nagorno Karabakh e la popolazione armena sia dovuta fuggire abbandonando per sempre le proprie abitazioni, i timori di un’escalation militare nella regione non sono stati scongiurati. Azerbaijan e Turchia in queste ore stanno infatti rivendicando l’apertura di una via di comunicazione che colleghi l’Azerbaijan con l’exclave del Nachicevan, e di conseguenza la Turchia, attraverso la provincia armena di Syunik. E questo potrebbe divenire il casus belli per una possibile quanto imminente ripresa delle ostilità nell’area caucasica. E a confermarlo è stato lo stesso segretario di stato statunitense Antony Blinken che a inizio ottobre ha dichiarato: “L’Azerbaijan potrebbe invadere l’Armenia nelle prossime settimane”.
Shurnuk è l’ultimo villaggio armeno prima dell’Azerbaijan e solo una strada separa i due Paesi. La bandiera armena e quella azera garriscono una di fronte all’altra e le truppe di Yerevan e quelle di Baku presidiano, in uno stato massima tensione, le postazioni considerate tra le più calde di tutta la linea del fronte. Nell’ultima casa del piccolo paese vive Kachek con la sua famiglia. “Come si può dire che la nostra è una vita quando abitiamo a 20 metri dal nemico e siamo consapevoli che da un momento con l’altro può esserci un’avanzata azera e noi siamo i primi ad essere occupati? Ogni giorno ci sono scontri su tutta la linea del fronte. Se nessuno ne parla non significa che non avvengano”. Dopo una lunga pausa Kacheck prosegue aggiungendo in modo laconico. “Non abbiamo speranze ma solo una certezza: la guerra in Armenia presto ci sarà: si, la guerra ci sarà”.